La supply chain nel post-Covid richiede alle aziende di rivedere i piani e le attività
La pandemia ha causato inevitabili ripercussioni sulla catena di approvvigionamento – supply chain – e ha costretto le aziende a rivedere i propri piani e le attività per affrontare tali cambiamenti.
In questo articolo di Pambianco News, scritto da Laura Bittau e scelto per i lettori del nostro blog, si parla dell’impatto che la pandemia ha avuto – a tutto tondo – nel settore moda.
L’Asia: il cuore della manodopera di molteplici aziende moda
Da H&M fino a Puma e Nike, passando per Hugo Boss e Inditex: non si contano i nomi dei fashion brands che tradizionalmente hanno fatto dell’Asia il cuore pulsante della propria manodopera. Questo avviene perché è possibile ricorrere a una rete di terzisti che storicamente consentono produzioni su larga scala a costi contenuti.
La catena di approviggionamento, con l’avvento della pandemia sembra essersi inceppata, come racconta l’inchiesta di Reuters. Ha incontrato impedimenti a monte di quella filiera che fino a oggi aveva rappresentato un modello di business funzionante ed efficace per il settore della moda e non solo.
Magazzini semivuoti, consegne che procedono a rilento, difficoltà nel reperire materie prime da parte delle multinazionali che sembravano avere in pugno la manifattura locale.
A partire dal mese di agosto in svariate zone del Vietnam, l’imperversare della variante Delta, ha fatto impennare i contagi. Questo ha portato così ad un severo rafforzamento delle misure di sicurezza. Il ‘butterfly effect’ ha fatto sì che, come non era difficile da prevedere, le conseguenze si avvertissero fino in Europa.
I marchi del tessile del Vecchio Continente hanno infatti nel sud-est asiatico la roccaforte della propria produzione, in particolare in Vietnam. Qui si trova l’esportazione di abbigliamento e calzature, il commercio del caffè, la ‘via della seta’… e ora, è invece, un campo minato costellato di ostacoli.
Le difficoltà di alcuni colossi della moda
Solo qualche mese fa, l’americana Nike si è trovata, nonostante la buona performance trimestrale, a rivedere al ribasso l’outlook per i restanti mesi del fiscal year. Questo è dovuto proprio alla luce degli intralci emersi nella supply chain: tra Vietnam e Indonesia, dove l’azienda produce il 30% del suo abbigliamento e il 50% delle calzature. Il rallentamento dei trasporti fino al Nord America e la chiusura delle fabbriche ha fatto parlare il CEO, John Donahoe, di “mancanza di offerta disponibile”.
Anche l’italiana Benetton, intanto, starebbe cercando di portare più vicino a casa la propria manodopera. Come dichiarato a Reuters dall’amministratore delegato Massimo Renon, in questo caso il gruppo starebbe guardando a Paesi come Serbia, Croazia, Turchia, Tunisia ed Egitto. Il manager ha illustrato i benefici nell’intraprendere questa scelta, che probabilmente una tendenza tutt’altro che transitoria nel tessile, e probabilmente anche in altri segmenti di mercato.
Una supply chain lunga e irta di ostacoli come quella che dal sud-est asiatico arriva fino a noi sta vedendo schizzare in modo incontrollato costi e tempi di spedizione. Costi che si ripercuotono, tra l’altro, anche sul consumatore finale. Questo modello sta mostrando le crepe di un sistema produttivo che è andato bene negli ultimi 30 anni ma ora si rivela in tutta la sua insufficienza.
I cambiamenti nella supply chain
Ma probabilmente, se davvero ci sarà un cambiamento a lungo termine nella produzione del tessile, saranno sempre le logiche di mercato a imporlo: una supply chain più breve e controllata, nell’era post-Covid, potrebbe diventare una necessità.
Secondo la società di consulenza americana AlixPartners, il cambiamento delle supply chain è destinato a durare. “Più le catene di approvvigionamento sono globali, più le cose possono e andranno male”, spiegano i suoi analisti.
La rete mondiale delle forniture aveva già da tempo iniziato a manifestare le sue storture, ma la pandemia sembra stare facendo da catalizzatore. Le aziende adesso cercano di ricorrere al cosiddetto ‘nearshore outsourcing’, ovvero l’avvicinamento del proprio business al suo Paese nativo. Una pratica che appare più sostenibile proprio nel momento in cui la globalizzazione sta rivelando le sue fragilità.
Anche la tecnologia sarà in grado di migliorare la resilienza e l’affidabilità della supply chain. L’uso dell’Intelligenza artificiale potrà consentire una maggiore visibilità – fattore chiave per il futuro della supply chain – con l’utilizzo congiunto di soluzioni hardware e software.
Potrebbe essere proprio la crisi pandemica, dunque, il ‘breaking point’ che imporrà logiche produttive diverse da quelle che hanno prevalso finora.
Anzi, ha già iniziato a farlo.
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